Senza arte né parte: recensione

"Senza arte né parte" è il nuovo lavoro alla regia di Giovanni Albanese con Vincenzo Salemme e Giuseppe Battiston.

Avete nostalgia dei vecchi film della commedia all’italiana di una volta? Allora “Senza arte né parte” è il film che fa per voi. Il nuovo lavoro di Giovanni Albanese è uscito nelle sale di tutta Italia in questi giorni, dopo la prima al Cineporto di Bari e al Massimo di Lecce, riportando in auge un concetto assolutamente tradizionale del cinema italiano, quello dell’arte di arrangiarsi.

La storia è semplice: il proprietario del pastificio Tammaro chiude il vecchio stabilimento per investire nell’arte moderna, stimolato dalla consulente-amante. Tra quelli che vengono licenziati, ci sono tre amici, Enzo (Vincenzo Salemme), Carmine (Giuseppe Battiston) e Bandula (Hassani Shapi), che non possono andare a lavorare neppure nel nuovo pastificio che è completamente automatizzato. Aurora (Donatella Finocchiaro), moglie di Enzo, convince Tammaro (Paolo Sassanelli) ad assumere i tre come guardiani per le opere d’arte.

Sarà questa la molla che porterà i tre a una serie di eventi che li condurranno a diventare falsari di opere d’arte, in una grottesca commedia degli errori, dove i più deboli non è detto che debbano sempre soccombere di fronte al dio denaro, ma riescono a trovare una via d’uscita per esprimere al meglio i loro talenti.

Il film è stato girato in gran parte a Roma e nel Salento, dove il regista Albanese ha la sua seconda casa. Tra le località interessate sono ben visibili Otranto, Lecce, Maglie e Palmariggi, oltre che una serie di comparse autoctone e qualche attore locale, come Ippolito Chiarello, uno degli attori italiani più noti nell’Europa dell’Est.

I pregi del film sono la velocità, cosa che i vecchi film della commedia all’italiana non possedevano, un ottimo ritmo, una buona fotografia, complice anche la luce naturale dei luoghi che è stata grandemente valorizzata. Nelle mani di Albanese il Salento diventa, per sua stessa ammissione, come uno di quei libri di favole in cui si aprono le pagine e si sollevano le figure: paesaggi profondi nella loro bidimensionalità.

Ci sono alcune pecche però. La prima è che forse tutto è un po’ troppo veloce, pur offrendo degli spunti interessanti alla risata, in particolare nelle scene che riguardano l’assurdità delle opere d’arte moderna che i tre malcapitati si trovano sotto mano. Degli spunti che derivano da citazioni colte: viene subito in mente quell’episodio interpretato da Alberto Sordi in “Dove vai in vacanza?”, ma anche “La banda degli onesti” e un po’ di quegli spaccati del Sud Italia alla Pietro Germi. Il grande difetto è però la caratterizzazione linguistica, come al solito, in tutti i film di respiro nazionale spostata verso il dialetto barese, a dispetto dell’ambientazione locale. Per il resto, se amate il genere, la visione è caldamente consigliata.

Una delle chicche più belle è quella che ci è sembrata essere la citazione ironica di una scena di “Arancia meccanica“, immortale capolavoro di Stanley Kubrick: con la stessa grazia con cui i drughi ingaggiavano una lotta senza quartiere contro Billy Boy, Salemme e Battiston fanno un delicatissimo valzer, in cui distruggono scatoloni di pasta dopo essere stati licenziati.

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