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Crescono le quote rosa nella ricerca, ma il successo dei cervelli fuggiti all'estero è tutto mancato profitto per il sistema italiano.
Crescono le quote rosa nella ricerca, ma fanno parte dei tanti cervelli italiani che lavorano all’estero: dopo aver studiato in patria producono, grazie ai loro brevetti, un miliardo di euro di profitti, di cui non vedremo mai un centesimo. Questo è uno dei dati più emblematici dello studio della Fondazione Lilly illustrato al Senato.
Nonostante i dati positivi relativi alle quote rosa, viene da mangiarsi le unghie se si pensa all’incredibile segno negativo del bilancio: il Paese spende denaro per istruire i giovani, poi quando potrebbero restituire questo investimento, li sottopone a tante e tali frustrazioni che preferiscono cercare fortuna all’estero, dove il loro lavoro viene apprezzato. Risultato: ci perdiamo due volte.
Secondo lo studio, realizzato dall’Istituto per la Competitività, la produttività media di un ricercatore è di 63 milioni di euro e di venti brevetti. Soltanto i venti migliori cervelli italiani nel mondo hanno depositato nell’ultimo anno brevetti per 49 milioni di euro.
In questo scenario disarmante, emerge se non altro la buona notizia della ricerca rosa, sempre più importante: nel 2011 il numero delle donne ricercatrici italiane nella lista dei 50 migliori al mondo è raddoppiato. Ma si tratta comunque di cervelli che oltre a essere in gonnella sono anche all’estero.
Di fronte a questo problema, normalmente si aumenterebbero i fondi per la ricerca, per rendere più attrattivo il paese. Ma noi, ovviamente, non l’abbiamo fatto. Anzi, i fondi sono fermi da dieci anni. Nel 2000 l’1,1% del Pil, nel 2011 è ancora così, suddiviso in 0,6% da fondi pubblici e 0,5% da privati. Uno dei più bassi dell’Ocse.
Fonte: I-Com
Articolo originale pubblicato il 1 dicembre 2011
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