Cartoni educativi: Monster High insegna a essere unici

Il 17 ottobre esce in DVD "Monster High: Una festa mostruosa", film animato in computer grafica con molti messaggi educativi per i piccoli.

Per nostra fortuna, anche nel 2012 continuano a esserci cartoni animati molto educativi che spesso aiutano noi genitori a comunicare messaggi positivi e comportamenti adeguati ai nostri figli.

Uno di questi è il nuovissimo Monster High: Una festa mostruosa, il primo film animato in computer grafica che sarà disponibile in DVD a partire dal 17 ottobre. Si tratta di un nuovo titolo d’animazione in uscita per Universal Pictures, che, visto il successo riscosso dalle bambole Mattel in 35 paesi diversi, della serie TV e dei webisodes su Youtube, ha deciso di distribuire anche il primo film animato di un franchise accattivante e piuttosto fashion-gothic che, sicuramente, piacerà tanto alle bambine e alle teenagers italiane.

Protagonisti di questo nuovo titolo d’animazione sono i figli teenagers dei mostri più famosi al mondo (Dracula, Frankenstein, il Dr Jekyll, Il Fantasma dell’Opera, Medusa ecc) impegnati nelle difficoltà che qualsiasi adolescente deve affrontare nella vita, con l’aggravante, naturalmente, di essere “anormali”. Ciò che più colpisce di questo cartone è la sua narrazione acuta e divertente che coglie i momenti difficili, ma pur sempre condivisibili, della vita liceale degli adolescenti. C’è un messaggio educativo dietro a Monster High e per dirla con le parole di Steve Jobs, è: “abbiate sempre il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione perché in qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo veramente diventare”. Per approfondire l’argomento infanzia-insicurezza, e capire meglio come affrontare le problematiche legate ai disagi infantili e adolescenziali, abbiamo intervistato la Dott.ssa Paola De Cesare Psicologa, PhD in Psicologia dinamica, clinica, dello sviluppo presso l’Università “Sapienza” di Roma e il Dott. Giovanni Riccardi, Psicologo a indirizzo dinamico-clinico per l’infanzia, l’adolescenza e la famiglia.

1) Non sentirsi a proprio agio, inadeguati, e di conseguenza non riuscire a essere se stessi e rapportarsi con i coetanei può essere una problematica presente fin dall’infanzia. Come dovrebbe comportarsi un genitore nel caso notasse che il proprio figlio stia attraversando un momento difficile della sua vita?

«Crescere espone inevitabilmente ciascuno di noi a numerosi e continui cambiamenti. Le crisi tipiche dei vari passaggi evolutivi vengono spesso attraversate da sentimenti di inadeguatezza e disagio, proprio a causa ma anche a favore della riorganizzazione che siamo tenuti costantemente a effettuare. Esistono, così, difficoltà che sono tipiche del momento di vita in cui si trova il bambino e che non attengono, necessariamente, a stati di patologia. Altri tipi di disagi possono, invece, sottendere una richiesta d’aiuto all’adulto di riferimento, un bisogno di attenzione che il bambino non riesce a verbalizzare chiaramente ma esprime attraverso comportamenti che possono sembrare preoccupanti. Il bisogno primario, di essere sia valorizzato che accolto, spinge il bambino a ricercare costantemente la relazione con chi gli è vicino e, parallelamente, a proporre le proprie esigenze di autonomia e contenimento. Un’ottimale competenza genitoriale è quella di “tenere nella mente il bambino”, porre attenzione e dare significato alle reali capacità del figlio, collocandosi in una posizione di ascolto e non solo di proposta.»

2) I bambini di fronte a una situazione di disagio personale possono reagire chiudendosi a riccio, mostrando al mondo circostante un’estrema timidezza. Fino a dove può spingersi un genitore nel cercare di spronare il proprio figlio a uscire dal proprio guscio?

«Probabilmente prima di “agire” risulterebbe prezioso riconoscere che il proprio figlio è una persona diversa, un individuo con caratteristiche peculiari differenti, un essere separato e in evoluzione, con i propri interessi, le proprie attitudini e le proprie problematiche legate all’età. “Mettersi nei panni” del proprio bambino può aiutarlo a sentirsi compreso, imparando a regolare le proprie emozioni. Possono esserci delle situazioni particolarmente faticose da affrontare per i genitori, in questo caso una richiesta di aiuto non equivale di certo al fallimento delle capacità genitoriali, bensì all’espressione di un’ulteriore sensibilità nei confronti del bambino e della relazione stessa.»

3) Oggi i bambini, fin da piccoli sono schiavi dell’omologazione: il cellulare di ultima generazione, il nuovo videogioco, una marca precisa di abbigliamento…a che età è giusto intervenire facendo capire l’unicità personale?

«Il sentimento di unicità personale germoglia prima ancora della nascita nel pensiero che i genitori rivolgono al bambino, ad esempio nella scelta del nome, e si sviluppa successivamente attraverso il riconoscimento o, come lo definiva Winnicott il rispecchiamento del bambino nello sguardo della madre. Insegnare al bambino che è unico, non per quello che possiede, ma per quello che è, non è dunque una lezione didascalica da impartire. Nonostante la “gadgetizzazione perpetua della vita” la famiglia può ancora assolvere al suo mandato storico: la particolarizzazione delle cure. In un esperimento ormai storico sulle scimmie del 1958, Harlow, aveva separato delle scimmiette dalla madre e le aveva chiuse in gabbia con due sostituti materni: uno di peluche, caldo e morbido che non forniva latte e l’altro freddo, metallico, ma che erogava latte. Le scimmiette dimostrarono di preferire nettamente il surrogato di madre di peluche piuttosto che la madre metallica che erogava latte.

Questo esperimento, il primo di una lunga serie, ci dimostra che la necessità di contatto fisico è un bisogno primario e indipendente da quello concernente il soddisfacimento dei bisogni fisiologici, e che il legame di attaccamento madre-figlio è qualcosa di più che l’esito di un rapporto strumentale finalizzato all’ottenimento di cibo da parte del cucciolo.

Ciò di cui il bambino necessita è dunque di ordine “relazionale”; il desiderio del bambino è dell’ordine della domanda di riconoscimento, è un desiderio svincolato dalla soddisfazione materiale e che coincide con l’essere lui stesso l’oggetto del desiderio desiderato. E’, per dirlo con la psicoanalisi, desiderio di essere desiderato dal desiderio dell’Altro, è desiderio di essere amato e riconosciuto dall’Altro in quanto soggetto.»

4) I primi problemi relazionali iniziano fin dall’asilo, i bambini anche se piccoli, tendono a prendere di mira i compagni che reputano “diversi” che sia per gli occhiali, l’apparecchio ai denti, per l’altezza ecc, è giusto che un genitore intervenga o bisogna lasciare i propri figli liberi?

«Il genitore che riconosce l’unicità del proprio figlio, accettando, ad esempio, che egli esprima pensieri differenti dai propri, che abbia interessi e abilità diverse dalle sue, sta già intervenendo nello strutturare un pensiero di profondo rispetto per la diversità. Fin dai primi due anni di vita i bambini presentano capacità empatiche che gli consentono di percepire il disagio altrui e di rispondervi. Con lo sviluppo queste capacità si arricchiscono e diventano più sofisticate. L’ambiente familiare è sicuramente la prima palestra per l’apprendimento di comportamenti prosociali, non bisogna però dimenticare che altri luoghi educativi, l’ambiente scolastico in primis, svolgono un ruolo fondamentale per l’acquisizione di valori centrali come il rispetto, la tolleranza e la valorizzazione delle differenze. Ed è proprio il confronto con l’Altro, diverso da noi, che permette la nostra crescita e l’arricchimento del nostro mondo interno.»

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